Edward Hopper, Drug Store (1927). Boston, Museum of Fine Arts. Da WebMuseum |
Non pensavamo che l'arte contemporanea ci avrebbe dato la stessa emozione e la stessa necessità, direi quasi struggente, di guardarla anche da vicino inforcando gli occhiali, come ci succede con quella antica, con le sue minuziose e squisite calligrafie.
L'occhio è caduto per primo sul dipinto di Edward Hopper. La suggestione notturna della vetrina newyorkese, nella strada silente, è irresistibile e piena di mistero. I colori raccolti in quello spazio giallo dove tutto intorno sfuma nell'inchiostro e nei seppia, riassumono il suo messaggio e la sua poetica, la solitudine e l'artificio del vivere nella metropoli e la rassegnazione alla perdita di senso, contemplati con occhio lucidissimo.
La stessa lucidità caratterizzava i filosofi della cosiddetta “Scuola di Francoforte”, a me tanto cari, che analizzavano l'evoluzione del pensiero fino al disperante esito di impotenza nella società contemporanea.
Una reazione di ferma ribellione, che si traduce in negazione del linguaggio stesso, Jackson Pollock la riversa sulle sue tele. Ce ne sono due nella mostra, una del 1948 e una del 1952, che con gli ermetici titoli di “numero nove” e “numero otto”, rispettivamente, vogliono restare suono inarticolato o cupo e urlato silenzio. Pollock spiegava la sua pittura come “improvvisazione psichica”, allo stesso modo in cui per i contemporanei scrittori della beat generation (Ginsberg e Kerouac in particolare) la scrittura avveniva in una condizione di trance, era un lasciar fluire il senso direttamente dalle profondità della psiche, fuori dalle strutture usuali, senza mediazioni.
Questo era anche il Jazz di Charlie “Bird” Parker, il maestro di tutti, di una musica e un'arte in genere che viveva di improvvisazione. Ma l'evoluzione dell'arte americana trova una nuova espressione snodandosi tra i grattacieli della grande città, tra i muri immensi dove è difficile sentirsi persona, ed esistere come uomo. E l'artista, non aspirando più all'eternità, si accontenta di vivere, e l'ambiente urbano, così smisurato, diventa la sua tela.
Keith Haring, nei suoi brevi 32 anni di vita, ha lasciato il segno geniale di una sintesi straordinaria con cui linee semplici e ambivalenti individuano sagome umane che hanno spessore solo immaginario e trasparente dentro i contorni definiti da una linea. La sua grande tela qui esposta è commovente e fa sorridere per l'ironia, la grazia, l'energia e la dissimulata consapevolezza.
Altre meraviglie ha in serbo la mostra, e tutte grandi. Inconfondibile, benché imitatissimo, lo stile di Roy Lichtenstein. Abbiamo cercato di carpire alla grande tela i suoi segreti, facendo ipotesi sulla tecnica di realizzazione, senza arrivare a una risposta. La implacabile nitidezza, più industriale che umana del prodotto, lo rende perfetto e misterioso. Come i bambini sono più affascinati da oggetti di plastica dai colori vivi e uniformi che dagli sfumati della natura, anche noi siamo rimasti a contemplare quell'umanità smaltata, quelle forme perfette e lontane dalla realtà.
Pensando anche alla celebre serie di visi di Marilyn, nessun ritratto per lui può restare inalterato a raccontare a modo suo una vita, perché una vita non è più tale, la persona si è dissolta nei colori artificiali di una cultura ormai inautentica, in cui l'uomo “unidimensionale” è divenuto semplicemente consumatore e si smembra mercificato negli oggetti e nei colori.
Come è stato emozionante scoprire le premesse di tante produzioni viste anche qui in Italia! In quest'arte pioniera ci è sembrato di riconoscere le radici, piene di energia ma anche di minacce, di quello che per noi era futuro ed è a poco a poco diventato presente.
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Linea d'Ombra. Da Hopper a Warhol.
Palazzo SUMS, Repubblica di San Marino, 21 gennaio - 3 giugno 2012
Link al Sito Web della Mostra
Palazzo SUMS, Repubblica di San Marino, 21 gennaio - 3 giugno 2012
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